Mostrandosi assai sensibile all’influsso di Sigmund Freud, Dalì con La persistenza della memoria riflette sulla relatività del tempo. Il suo scorrere è cupamente scandito dal moto cadenzato degli orologi, che pretendono di misurare oggettivamente questa dimensione; eppure, a giudizio di Dalì, questi strumenti tecnici sono messi in crisi dalla memoria umana, un dato né quantificabile né tangibile che è alla base della soggettività del tempo. L’orologio che pretende di misurare il tempo in modo oggettivo, cede di fronte alla soggettività della percezione e ai meccanismi incontrollabili della memoria. A questo strumento tecnico sfugge un dato, quello più rilevante eppure, paradossalmente, non rilevabile, non calcolabile, non quantificabile e non tangibile: l’esperienza umana. Questa mette in crisi l’oggettività del tempo poiché, come a tutti sarà possibile riconoscere, i secondi sono altra cosa degli attimi…
E se questo è vero nella percezione in stato di veglia, lo è ancor di più durante il sonno. O meglio il sogno, a cui il quadro fa chiaramente riferimento, come lo stesso autore spiega, nel raccontare che il paesaggio è ricco di suoi ricordi. E questi, in quanto prodotto dell’inconscio, appaiono deformati.
Questa plasticità temporale riguarda sia diversi individui in diverse fasi della vita, sia uno stesso individuo in diversi contesti. Un bambino ha una percezione temporale molto particolare, legata al qui ed ora; un adulto vive scandendo tempi e ritmi delle giornate in base al lavoro ed agli impegni; un anziano vive una fase della vita in cui la prospettiva futura e, conseguentemente, i progetti strettamente individuali si riducono progressivamente ed il vissuto del passato e della memoria si allargano enormemente. Il tempo non è uguale per tutti.
Questa opera d’arte di Salvador Dalì sottolinea bene l’approccio a indirizzo psicoanalitico a cui ci rifacciamo. Accedere al mondo inconscio, acquisire alla coscienza ciò che ne è stato escluso è la finalità specifica che ha connotato la cura psicoanalitica fin dalla sua fondazione: «Dove era l’Es, deve subentrare l’Io» (Freud, 1932). Un approccio quindi che mira a “rendere conscio l’inconscio”, cioè a rendere consapevole ciò che solitamente non lo è, perché il soggetto diventi padrone di se stesso, riconosca i meccanismi attraverso i quali agisce e vede il mondo, quali memorie si porta dentro e come influenzano la sua vita attuale e le sue relazioni e decisioni. Ma la memoria, conscia o inconscia, è molto potente: non solo influenza il nostro passato, presente e futuro, ma arriva addirittura a suggestionare le generazioni future, a ripercuotersi sui figli e i figli dei figli, senza che nessuno dei soggetti coinvolti ne sia consapevole. È importante quindi lavorare per spezzare questa catena e diventare padroni della propria vita, consapevoli di come funzioniamo e perché agiamo in un certo modo.
L’obiettivo del lavoro terapeutico non è quindi solo quello di risolvere un problema momentaneo, ma di rendere il soggetto davvero consapevole di sé e permettergli quindi di inquadrare il problema in una più ampia visione del suo funzionamento.